mercoledì 10 agosto 2011

La coscienza dell'automa

Ho deciso di pubblicare il primo capitolo del mio libro, Dream On, seconda stesura.
Se volete assaggiarne un pezzetto allora leggete! :3




01



Apro gli occhi.
Un soffitto bianco è sopra di me, proprio dove doveva essere.
Sposto lo sguardo ed esamino l’ambiente che mi circonda. Sono in una stanza grigia, steso su un freddo letto metallico. In un angolo c’è un armadio, di fianco a un muro si trova un’antica televisione, numerosi e grossi computer giacciono su una lunga scrivania.
Qualcosa non va, però. La televisione e i monitor dei computer sono senza schermo, posso vedere tutti i circuiti all’interno. La finestra è sbarrata da una pesante placca di metallo fissata con numerosi e spessi bulloni, ma nonostante tutto la luce riesce a filtrare dalla finestra mostrando piccoli granelli di polvere svolazzare. Capisco dunque che è giorno.
Dal letto partono centinaia di cavi che si immergono in tubi di ferro negli angoli delle stanze collegati a chissà cosa. Sono al centro di una ragnatela di ferro, e il letto è il mio ragno. Le sue lunghe zampe mi avvolgono. Mi accorgo poi che non si trattano di zampe bensì di lunghi cavi i quali terminano con ventose appiccicate a ogni parte del mio corpo. Le ossa mi fanno un male terribile.
Mi siedo sul letto, strappando ogni ventosa, e continuo a guardarmi intorno. Perché tutto ciò non mi sorprende? Perché per me è tutto terribilmente normale? Mi massaggio le tempie e rifletto. Ieri non ero qui. Ero altrove, facevo qualcos’altro, e sono andato a dormire da qualche altra parte. I ricordi sembrano esserci ma sfocati, sfuggenti, e appena li focalizzo serpeggiano via dalla mia mano, scivolano. Chiunque fossi stato ieri, non avevo questo dannato dolore alle ossa, poco ma sicuro.
La casa mi è familiare, ma non provo la tipica sensazione di appartenenza. La conosco ma non sembra essere mia. Di conseguenza, dovrebbe essere di qualcun altro. Mi stringo la testa e mi arruffo i capelli, ah ho dei capelli!, e mi alzo. Fantastico, mi accorgo di essere completamente nudo. Cosa devo fare adesso? Se incontrerò qualcuno, mi presenterò e gli spiegherò la situazione. Cioè, mi sono appena svegliato in camera tua nudo come un verme e non ricordo nulla di ciò che ho fatto ieri. No, no, no. Ciò non può funzionare. Mi rendo conto che effettivamente non conosco neanche il mio nome. Come posso presentarmi a qualcuno se non conosco il mio nome? Cerco di andare indietro con la mente ma la mia memoria non è che un colabrodo, mi sfugge tutto. Ho un passato, ma più cerco di ricordarlo, meno riesco ad afferrarlo. La cosa più strana è che tutto ciò mi sembra perfettamente normale.
Sento il bisogno di continuare la mia routine. Un pensiero in qualche angolo della mia testa mi suggerisce che effettivamente sarebbe ora di andare a scuola.
Insomma, io mi sveglio senza sapere chi sono e voglio andare a scuola. Mi fa quasi ridere.
Cerco qualcosa con cui coprirmi aprendo il divano. Trovo numerosi abiti che sembrano proprio della mia misura, quindi indosso in tutta fretta un pantalone color cachi e un maglione verde. Eliminato il problema nudità, posso permettermi di esplorare la casa.
Vado in giro a curiosare e sembra essere tutto in ordine. Silenzio tombale, però.
Noto effettivamente che non c’è nessuno. Un perfetto appartamento vuoto, perché si tratta di un appartamento a quanto pare, e non ci sono mobili. Tranne, ovvio, quelli della stanza in cui mi sono svegliato. La casa è polverosa, come se non pulissero da tempo, eppure si vedono chiaramente quadrati chiari sui muri, privi di polvere e sporco. In quei punti dovevano trovarsi dei mobili. Ora non ci sono, non capisco perché avrebbero dovuto toglierli. Ogni finestra è sbarrata dalla solita placca di metallo. Entro in quella che presumibilmente dovrebbe essere la cucina, lo capisco da un fornello e un lavandino staccati e poggiati a terra, rovinati.
Le tubature del lavandino sono come strappate, mentre cammino calpesto una vite e mi rendo conto della presenza di piccoli pezzi come bulloni, pietre o pezzi di ferro. Oltre quello non è che una stanza vuota. Dalla cucina si affaccia un balcone, senza grosse sbarre di ferro a differenza delle finestre. Do uno sguardo all’esterno e vedo solo un ambiente urbano. Il crepuscolo soffocato dai gas assume una colorazione verdastra. Sto assistendo a un’alba verde.
Non riesco a credere che la sensazione di obbligo alla ciclicità di routine mi stia obbligando a proseguire come se nulla fosse. Che razza di persona sono se sento il bisogno di proseguire normalmente, se accantono automaticamente ogni problema insolito per proseguire per la mia strada? Mi viene da accantonare anche il fatto che sia strano, non sembrano nemmeno miei pensieri.
È quasi un istinto, una forza innata che mi spinge a continuare e rende scivolosi i miei ricordi.
Vado in bagno e osservo la mia figura allo specchio. Vedo un ragazzo con labbra carnose, occhi castani a mandorla e pelle abbronzata. Ho i capelli folti, lunghi fino alle spalle. C’è un elastico sul lavandino, e con un gesto automatico lo prendo e mi faccio un codino. Evidentemente è un’abitudine che non sono riuscito a lavare via. Apro il rubinetto e vedo che in questa casa l’acqua c’è, quindi non è completamente abbandonata.
Mi sciacquo nella speranza che l’acqua fresca mi chiarisca le idee, e magari mi faccia passare il dolore alle ossa e alle articolazioni.
È ora di decidere cosa fare. Tra i tanti flussi di possibilità e di eventi, ci sono infinite vie da prendere. Principalmente potrei aspettare che qualcuno arrivi e potrei chiedere spiegazioni, ma scelgo di continuare, prendere l’iniziativa e di andare avanti secondo i miei bisogni e istinti.
Io sento di dover andare a scuola.
Utilizzo il treno per raggiungerla, so automaticamente dov’è la stazione e dove e quando effettuare i cambi.
Ho dimenticato le mie esperienze e le mie conoscenze, ma allo stesso tempo riconosco gli oggetti, la routine. So cos’è una sedia. Quindi non sto partendo da capo.
È strano rendersi conto delle piccolezze che si pensano quando si perde la memoria.
Dopo numerose fermate scendo alla mia destinazione e prendo la strada per la scuola. Vengo accompagnato da una folla di studenti, tutti vanno nella stessa direzione.
Un manipolo di gente pieno delle più varie persone. Mi sento stretto e accaldato quando cammino, gente sudata o poco lavata si stringe tra loro e si affretta per arrivare puntuale.
La scuola ha due entrate. Scendendo dalla stazione si raggiunge prima l’entrata secondaria ma io, in qualche modo, preferisco entrare da davanti.
È una scuola priva di specializzazione. Quando arrivo noto diverse cose che non vanno.
Il cancello è deforme, tubi di ferro si intersecano col marmo per formare due enormi porte. Le ante sono aperte ma non simmetricamente. Riesco a intravedere la cancellata sinistra; sono scultura in altorilievo confusionarie. Dalle parti della serratura c’è un disegno particolare, sembrano mani, o zampe.
Le persone sudaticce e indaffarate continuano per la loro strada, ignorando tutto e tutti. Ignorano il cancello, ignorano me e il mio dolore alle ossa.
Mi lascio trascinare dagli altri, mi dimentico dei dettagli ed entro a scuola. L’edificio è grigio, somiglia quasi a un carcere. Le mura all’interno sono bianche e noto che in ogni angolo c’è una statua di marmo greca o un manichino flaccido. Prima di farmi troppe domande decido di smettere di pensare.
Ovviamente so anche in che aula devo andare: è la 230 al secondo piano.
La mia classe è composta da trenta persone circa, l’aula è ampia e io naturalmente non riconosco nessuno. Mi siedo e attendo lo scorrere degli eventi. I primi dieci minuti passano in un silenzio religioso e stupefatto, almeno la metà degli studenti non sa perché si trova a scuola. Come me.
Sono circondato da persone bizzarre, mi diverto a osservarli. Di fianco a me è seduto un ragazzo alto, slanciato, dai capelli rossi e lo sguardo furbo. Ha le gambe rilassate e distese, le mani dietro la testa e attende l’inizio della lezione beatamente. Vicino alla cattedra ci sono due ragazze dai vestiti particolari. Neri, lunghi, pieni di fiocchi e lacci. Credo sia un’antica moda tornata in voga recentemente: il gothic lolita. Una delle due ha i capelli bianchi come la neve e continua a voltarsi in direzione di un altro ragazzo, seduto nell’angolo più in ombra della stanza. Ha i capelli tinti di nero e pesante trucco sugli occhi. Sembra stia rimuginando qualcosa, si tocca il mento e pensa intensamente, spesso accenna a un sorriso. Nonostante tutto è un bel ragazzo.
Arriva il professore, un uomo alto, panciuto ma giovane, con gli occhiali e uno sguardo particolarmente irritato. Non procede con l’appello, semplicemente si siede e comincia a leggere una rivista di moda. Dopo qualche minuto la poggia e si alza.
— Forse è ora di cominciare a lavorare. Tu! Tu, ragazzo dai capelli rossi, sai cos’è la seconda operazione Partenopee? —
La domanda colpisce un po’ tutti. Dopo qualche attimo, il rosso risponde titubante:
— Ha qualcosa a che fare con Neapoli?—
Un ghigno si dipinge sul volto del professore,
— Neapoli è il nome della nostra isola. Non è una risposta.—
Il rosso mugugna qualcosa digrignando i denti. Evidentemente non ha assolutamente idea di cosa rispondere. Ma io sì. Alzo la mano, pronto ad aiutare il mio compagno di classe ma il professore mi guarda con aria quasi di rimprovero, come se preferisse prendere in giro il rosso piuttosto che fare davvero lezione.
— Come ti chiami? — Gli chiede l’insegnante, alzandosi dalla cattedra. Si avvicina in modo sinuoso, a passo sicuro. Un gatto pronto a giocare con un topolino che ha attratto la sua attenzione. Il rosso allarga con un dito il colletto della sua camicia rosa per deglutire. Risponde qualcosa di inarticolato, seguito da un lungo — Ehhmm.. —
— Dovrei metterti un’insufficienza.. ma diamine! — Il professore sbatte la mano contro il banco di una ragazza che non c’entra nulla — Non ho il registro! Quindi che importa. Tu volevi rispondere? Come ti chiami? — Finalmente indica me e toglie l’imbarazzo accumulato sulla testa della povera vittima, il suo volto si è fatto di un rosso intenso perfettamente sposato con i suoi fiammanti capelli. Abbasso di scatto la mano e tiro il fiato per vomitare tutto l’agglomerato di informazioni che mi si è formato in testa.
— L’operazione Partenopee è un’azione militare per estirpare la malavita da Neapoli. A essere corretti si dovrebbe chiamare Operazione Partenopee Terza, in quanto le precedenti azioni si sono svolte in una florida città meridionale dell’Italia, sprofondata negli abissi più di un secolo fa. Non furono solo i politici a trasferirsi a Neapoli dopo il disastro naturale ma anche ogni tipo di malavitosi. Nella storia Italiana, questa è l’unica operazione Partenopee ad aver veramente funzionato. — Mi accorgo di avere il fiato mozzato, ho parlato troppo velocemente senza respirare. Prendo lente boccate d’aria in attesa della reazione del professore.
Lui mi guarda con una smorfia, aggiustandosi gli occhiali che continuano a scendergli sulla punta del naso.
— Voglio le date. — Sibila con gli occhi sottili come fessure.
— 2013 il disastro naturale che ha inondato l’Italia, 2020 la costruzione dell’isola artificiale terminata con successo nel 2060. L’operazione partenopee terza è stata eseguita il secolo scorso, quindi nel 2120. — Vomito ancora l’ondata di informazioni. Non ho idea di come faccio a sapere tutto questo. Non ne avevo idea, semplicemente. È come se avessi immagazzinato tutto ciò di cui ho bisogno sapere in lontani cassetti di una biblioteca immensa e ora magicamente mi sono ricordato come raggiungerli. Il professore, altamente insoddisfatto, mi lancia un profondo sguardo di disgusto dopodiché torna in silenzio al suo posto riprendendo a leggere una rivista spagnola. Mi sembra di vedere un gatto appena balzato su un succoso uccellino che però è volato subito via. Un gatto estremamente in disappunto. Tiro un lungo sospiro di sollievo, chiedendomi quando l’insegnante tornerà all’attacco torturando un altro studente a caso. Dovrei alzare di nuovo la mano?
Lancio uno sguardo fugace al rosso che ricambia trucemente. Si sbottona il colletto della camicia mostrando il suo petto liscio adornato da un ciondolo tribale e agita la mano come se fosse un ventaglio.
È ottobre ma non fa così freddo, probabilmente è perché ci troviamo quasi all’altezza dell’equatore, ma in compenso c’è un’umidità pazzesca.
— C’era proprio bisogno di fare il sapientone? — Mi chiede acidamente.
— A dire il vero io.. — Farfuglio qualcosa preso alla sprovvista. Pensavo di aver fatto una cosa positiva, distogliere l’attenzione del professore. Non è così? Perché deve comportarsi in questo modo?
— Lascialo stare, rosso, aveva buone intenzioni. — Dice un voce piatta con un terribile accento francese dietro di me. Mi volto e vedo un ragazzo dalle spalle ampie, con un’espressione apatica dipinta sul volto. Ha i capelli corti e castani ma una lunga frangia tinta di rosso gli copre l’occhio sinistro. È vestito di tutto punto, in modo quasi macabro: una scura camicia nera, cravatta nera, pantaloni neri, scarpe nere e due guanti neri di cuoio. Sembra uscito da un funerale. Ma la cosa che mi colpisce di più è il suo sguardo, l’unico occhio non coperto dai capelli mi guarda con un’espressione innaturalmente apatica.
Il rosso si copre la fronte con la mano, sospirando.
— Hai ragione, sono semplicemente.. stanco. —
Passa un’ora e quando il professore ha finito di leggere tutte le sue riviste omoerotiche indossa la giacca e se ne va. Per almeno dieci minuti non viene più nessuno quindi decido che è ora di interagire in cerca di informazioni. Do prima di tutto un preliminare sguardo in giro. C’è la ragazza bionda, mi affascina terribilmente. Come al solito coinvolta in una chiacchierata con altre sue amiche anche se ne è terribilmente estraniata e sorride gentilmente sperando che nessuno chieda la sua opinione. Le due ragazze vestite da gothic lolita chiacchierano ancora con calma e sorseggiano del te aromatizzato alle erbe anche se non mi è esattamente chiaro come l’abbiano preparato.
Sento due sguardi fissi verso di me, uno da parte del ragazzo dall’accento francese, l’altro invece da quell’inquietante tipo vestito di nero dai capelli tinti. È lì nell’angolo, per tutto il tempo è rimasto accovacciato nell’ombra indifferente ma adesso mi guarda con due grossi occhi azzurri truccati di nero sotto una scura frangetta cotonata. Dovrei chiedere in giro informazioni, anche se sembra che nessuno mi abbia riconosciuto. Ma ho i brividi al solo pensiero di dover rivolgere la parola a quei due tipi. Mi sporgo verso il ragazzo rosso e attiro la sua attenzione. — Ehi. —
Lui mi guarda scocciato come se ogni seccatura del mondo oggi dovesse capitare proprio a lui.
— Tu non mi hai mai visto prima, vero? — Gli chiedo. Lui mi guarda sospettoso, poi socchiude gli occhi pensando. — No. Non credo. Anche se fino a poco tempo fa ero convinto che.. mah. Niente. —
Anche se fino a poco tempo fa cosa? Non mi basta un “niente” come risposta, nella mia situazione non posso permettermelo.
— Cosa credevi? — Insisto. Lui esita nel dare la risposta.
— Ero convinto tu fossi in questa classe da sempre ma ora che ci penso non ho veramente idea di chi tu possa essere. —
Ah bene, perfetto. Fantastico. Lo ringrazio e mi alzo chiedendo in giro se le persone si ricordano di me, persino alla bionda. Parlandole per pochi secondi noto che ha due occhi azzurri veramente stupendi. Sorprendentemente ricevo sempre la solita risposta: sembra di riconoscermi ma in realtà non hanno idea di chi sia. Sono stupefatto. Cosa significa? Vuol dire che non sono solo io ad avere perso la memoria della mia identità ma tutti. Nessuno, compreso me stesso, si ricorda di chi sono. Una forte presa mi blocca, il ragazzo vestito elegante dall’accento francese mi ha afferrato il braccio senza dare spiegazioni. È incredibilmente forte, sembra di essere incastrato a una montagna.
— Devo parlarti. — Mi dice apatico. Sotto pressione mi agito e distolgo lo sguardo, noto che il ragazzo dai capelli neri nell’ombra ci sta guardando incuriosito.
— Non credo di volere, in realtà. — Dico agitato.
— Non essere stupido, è importante. — Mi risponde senza emozioni. Piatto, apatico, con un solo occhio dato che l’altro è coperto da una frangia tinta di rosso. Prima di trovare il tempo di rispondere in classe entra una signora di mezz’età dagli occhiali spessi e un incredibile doppio mento.
— Forza, ragazzi, che ci fate in piedi? Subito ai vostri posti. — Ci dice con voce severa ma allo stesso tempo cordiale. Oh, grazie probabile professoressa, grazie mille. Torniamo ai nostri posti mentre lei si avvicina alla cattedra. — Di chi sono queste riviste piene di uomini che abbracciano pupazzi? Ah, ma certo, dev’esser stato il professore di sociologia. Sempre stato uno smemorato dai gusti ambigui. — Mentre fa ordine e di soppiatto infila una rivista nella sua borsa io sono immerso ancora nei miei pensieri. Cosa vuole il francese da me? Mi fa venire i brividi.. e quel ragazzo nell’angolo, vestito di nero, presto anche lui arriverà da me. A un certo punto un pensiero totalmente irrilevante mi salta in mente: professore di sociologia? Ero convinto insegnasse storia, dato che ha fatto solo domande di questa materia.
Dopo un po’ invece capisco che questa professoressa, che dal doppio mento e occhiali spessi mi ricorda terribilmente una rana, insegna storia e italiano. Sembra molto gentile e disponibile ma soprattutto è coerente come insegnante, non si inoltra in un’approfondita lettura di riviste casuali. Oltretutto io non so proprio cosa fare, vorrei seguire la lezione ma a quale scopo? Teoricamente ho cose molto più importanti da pensare. Per esempio alla mia amnesia, al fatto che nessuno si ricorda di me o che cosa vuole l’elegantone francese. Passano ore e ormai è l’una. Non ho fatto che pensare a come reagire, come evitare di parlargli o che scusa inventare quando poi ho deciso che per quanto mi faccia accapponare la pelle non dovrebbe finire male, quindi sì, lo ascolterò.
Quando suona la lunga acuta campanella la professoressa ranocchio e tutti gli studenti si preparano e se ne vanno, eccitati. Resto a guardare la bionda mentre se ne va, ormai non riesco a fare a meno di fissarla, ma mi diverto anche a osservare tutte gli strambi eppure fin troppo comuni studenti della classe. Ovviamente il tipo francese non se n’è andato, mi guarda aspettando che io gli rivolga la parola.
— Ebbene, cosa volevi dirmi? — Trovo finalmente il coraggio di parlargli.
— Ho notato che hai parlato con tutti tranne con me. — Il suo accento francese è forte ma comprensibile. È seduto con le braccia incrociate, quasi pensieroso. —E non riesco a credere che tu non l’abbia chiesto alla
persona giusta. —
Persona giusta? Sa chi sono! Sono riuscito ad arrivare alla soluzione del mio problema così presto, quasi non posso crederci.
— Non so chi tu sia, anche se mi lasci un certo senso di deja-vù —
Ah, lui e i suoi termini francesi! Ma se non sa chi sono cosa intendeva con “persona giusta”? Lui mi guarda col suo occhio apatico, e se solo fosse stato un minimo estroverso mi avrebbe permesso di capire tutta l’emozione che gli scorre nelle vene. — Però.. — E invece no, lo capisco solo dal suo sommesso — Neanche io ricordo chi sono. —
In quel momento suona ancora la campana, l’effetto sorpresa è paragonabile a una doccia d’acqua fredda, come il cliché dell’allarme antincendio americano, uno spruzzo continuo freddo e silenzioso.
Il suono strillante della campana copre ogni mio pensiero e mi lascia in silenzio, ci guardiamo e restiamo immobili.
— Non ti sembra strano? — Mi chiede.
— Guarda, se dovessi elencare le cose che mi sembrano strane oggi non finirei più. — Dico sconsolato. Lui quasi mi ignora e con naturalezza continua — Neanche io ricordo il mio nome e finalmente trovo qualcuno con lo stesso problema. Ascoltami, è inutile chiedere in giro, non avrai nessuna risposta. È come se il ricordo della tua persona fosse stato cancellato, resta solo il tuo corpo senza identità. — Mi dice terribilmente serio. — Capisco. — Rispondo io pateticamente. Diamine, ti sta aiutando, sta facendo un discorso intelligente, che ti costa riuscire a essere al suo pari? Non mi esce mai nulla di buono. Annuisco anche con la testa.
— Ma mi stai ascoltando? Dove ti sei svegliato oggi? —
Che diamine dovrei dirgli? La mia mente è confusa, piena di immagini, di stupidaggini, della bionda, dell’insegnante, del rosso, della bionda, bellissima, della scuola, del cancello, del mio letto con i cavi, della televisione rotta.
— In una casa completamente vuota. — Dico io cercando di concentrarmi.
— Anche io. — Risponde immerso nei suoi pensieri che vengono presto interrotti da un grasso bidello. L’uomo, più largo che alto, tuona con imprecazioni e bestemmie esortando ad allontanarci per permettergli di proseguire il suo lavoro. Decidiamo di allontanarci quando mi viene in mente una cosa.
— Noi due siamo nella stessa situazione, no? Aiutiamoci, diventiamo amici. — Gli porgo la mano. — Immagino si possa fare. — Risponde lui soddisfatto e stringendomela.
— A proposito, come ti chiami? — Gli chiedo.
— Ne so quanto te. — Risponde